Sì, sto in fissa con Blood Orange

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Devonté Hynes è un figo. Cioè, proprio nel senso di cool, hip, quel concetto lì.
Ho scoperto la musica di Blood Orange un annetto fa, l’ho trovato in qualche mixtape di fine anno (Cupid Deluxe è uscito a novembre 2013) e da allora ci sto proprio sotto. È un disco pop coi pezzoni grossi, quelli che quando sei fermo al semaforo li canti in falsetto mentre tamburelli sul volante (ecco, l’ho detto).
Quando non fa musica per sé, Dev Hynes produce e remixa cose per altri: la mia preferita è questo remix di un pezzo di Florence & The Machine.

La settimana scorsa era ospite da Jimmy Kimmel, su ABC. Era il suo esordio in tv, e ha fatto (intendo cantato dal vivo, suonato e ballato) due canzoni di Cupid Deluxe. Ci sono anche delle ballerine, uno spazzolone e Dita Von Teese (mentre la tipa che canta è la sua ragazza Samantha Urbani, la voce femminile del disco).

Del pallone e del perché ci piace

World Cup quarterfinal, 1970: Italy 4-1 Mexico.

World Cup quarterfinal, 1970: Italy 4-1 Mexico.

 

And this, even more than neuron-blowing games or unbelievable outcomes, is the magic of the World Cup. Over the next 10 days, a substantial portion of the living population of the Earth will have its feelings altered simultaneously by the actions of 22 men chasing a ball around a field in Brazil. Whether you watch alone or in a group or at a stadium, you will know that what you are seeing is being seen by hundreds of millions of people on every corner of the globe, and that your joy, despair, or disbelief is being echoed in incomprehensibly many consciousnesses. Is there anything more ridiculous than this? There is nothing more ridiculous than this, but it’s an extraordinary feeling, too. When something incredible happens — Messi curls a ball around three defenders; Zidane head-butts Materazzi — it’s not just an exciting moment. It’s a bright line connecting you with the human race.

 

(Brian Phillips, “Stop Making Sense”, via)

Musica per prendersi bene – Diamond Mine

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Nel momento in cui scrivo è appena uscito il primo exit poll delle elezioni europee 2014 e pare che in Europa non tiri una bella aria; oggi – una domenica soleggiata di fine maggio – ho lavorato fino a tardi e mi hanno fatto salire il crimine (modo di dire ridicolo che uso però per ostentare giovanilismo); scopro sui social network che una mia tipa della triennale tra poco sputa fuori un bambino col suo tipo di allora (non io, l’altro); bevo troppo, faccio poco moto e ho la pancetta; ho pochi soldi
quand’ecco che
mi viene in mente che in frigo ho una Chouffe e nello stesso momento Spotify mi fa scoprire questo disco (quasi quasi glieli mollo quei 9,99 al mese). È del 2012, si chiama Diamond Mine ed è una collaborazione tra un cantautore scozzese che non conoscevo affatto, King Creosote, e Jon Hopkins.
A occhio rimane in loop per un mesetto. A posto così.

 

Chi sostituirà David Letterman? (non un altro Jimmy, per favore)

David Letterman e Bill Murray, ospite della prima puntata del "Late Night" (1982)

David Letterman e Bill Murray, ospite della prima puntata del “Late Night” (1982)

Durante la puntata dello scorso giovedì 3 aprile David Letterman ha annunciato di volersi ritirare nel 2015 dalla conduzione del Late Show With David Letterman, in prossimità della scadenza del suo contratto con la CBS. Letterman, 67 anni, è colui che ha reinventato il genere del late-night show, dopo che Johnny Carson lo aveva elevato a genere d’intrattenimento per eccellenza della tv americana; la decisione di ritirarsi giunge al termine di una carriera lunga oltre trent’anni spesi tra NBC e CBS (è il conduttore di late-night più longevo di sempre), e segue di pochi mesi quella del rivale/amico di una vita, Jay Leno.

Sono molti i nomi che si fanno per la successione alla poltrona di Letterman, probabilmente il posto di lavoro più ambito nel mondo dello spettacolo in questo momento. Praticamente tutti i media – americani e non solo – hanno compilato la loro lista di favoriti per il ruolo, e su Twitter in migliaia hanno detto la loro all’hashtag #LettermanReplacements.
C’è un nome, tuttavia, sul quale molti stanno scommettendo (letteralmente: è quotato 5/2): è quello di Stephen Colbert. Il conduttore del Colbert Report è l’uomo su cui avrebbe deciso di puntare la CBS, secondo i rumors che girano in questi giorni e secondo anche fonti vicine al network, come racconta Mashable. Colbert conduce dal 2005 il Colbert Report, un late show che va in onda sulla tv via cavo Comedy Central subito dopo il Daily Show di Jon Stewart.

Questo è Stephen Colbert

Questo è Stephen Colbert

Nel Report Colbert interpreta una versione fittizia di se stesso, un commentatore politico super-conservatore, razzista e tremendamente ottuso (un po’ sul modello di Bill O’Reilly, commentatore politico di destra su Fox). Nel corso degli anni il conduttore si è creato, assieme a Jon Stewart, un seguito enorme soprattutto presso il pubblico liberal e più giovane, ai limiti del culto (lui la chiama la Colbert nation); il suo programma è in effetti particolarmente divertente e acuto, e si distingue notevolmente dai principali late show, più tradizionali e dall’umorismo per famiglie. Lo stesso Colbert ha grandi doti comiche e sceniche: nel suo show fa una satira pungente sulla politica, società e sui media americani, sempre attraverso la doppiezza del proprio personaggio conservatore, che gli permette di suscitare le risate del pubblico grazie a un meccanismo comico solo in apparenza semplice, ma in realtà molto sofisticato (su Colbert, Stewart, il concetto di “truthiness” e l’importanza dei due comici nel discorso politico americano c’è un bell’articolo di Marilisa Palumbo uscito per Studio un paio di anni fa).
Un’altro indizio che farebbe pensare a Colbert come successore di Letterman è il fatto che anche il contratto di Colbert andrà in scadenza proprio nel 2015, come voluto – pare – dallo stesso Colbert per non precludersi la possibilità di raccogliere l’eredità del Late Show. Inoltre Colbert ha un seguito molto forte presso la fascia di pubblico che va dai 18 ai 49 anni, che è il profilo demografico che interessa di più agli inserzionisti (e non è poco).
Tra gli altri nomi in lizza va forte anche quello dell’attore Neil Patrick Harris, il Barney di How I Met Your Mother, molto apprezzato anche come conduttore di alcune serate di premiazione dei Tony e degli Emmy Awards. Secondo alcuni commentatori, l’eventuale scelta di Harris darebbe allo show un’impronta più prossima al varietà (attraverso gag musicali, di ballo, o sketch comici) e meno orientata verso lo stand-up, il monologo o la satira, esattamente come sta facendo Jimmy Fallon con il Tonight Show (NBC) rispetto alla gestione precedente di Leno.

In questi giorni in cui si parla della corsa alla successione di Letterman, molti (vedi tweet sopra) hanno però messo in luce un problema esistente nel mondo dei talk show e dei loro conduttori: la sottorappresentazione delle donne e delle persone di colore. È un dato di fatto che in decenni di storia della tv americana, la schiacciante maggioranza dei conduttori di late night siano stati uomini bianchi di mezz’età. Nel proprio blog sul sito del Washington Post, Alexandra Petri si chiede sarcasticamente:

Chi, storicamente, ha condotto più talk show serali sui principali network? Donne e persone di colore, o maschi bianchi di nome Jimmy? Esatto: maschi bianchi di nome Jimmy. Ci deve essere qualcosa a proposito di questo nome che ti rende oggettivamente una persona migliore

La televisione è un medium dominato da una élite di uomini eterosessuali bianchi, e ultimamente da più parti si sta mettendo in discussione lo status quo, sottolineando la necessità di un riequilibrio nella rappresentazione di donne e di minoranze; del resto obiezioni molto simili sono state avanzate in tempi recenti per quando riguarda il mondo del dramma televisivo – le grandi serie HBO, per intenderci – e a proposito della composizione del cast del Saturday Night Live. D’altronde siamo in un periodo in cui ci sono tante donne divertenti in giro, tra tv e cinema: non è un caso che, come outsider per la poltrona di Letterman, i media USA facciano i nomi di Amy Poehler (Parks & Recreation), Tina Fey (ex star del SNL e di 30 Rock), della stand-up comedian Tig Notaro e soprattutto di Ellen DeGeneres e Chelsea Handler (che ha appena lasciato il proprio talk show a E!).

Il late-night show è qualcosa di più di un semplice genere televisivo. Per gli americani – e oggi, grazie a Youtube, al P2P o alle repliche all’estero, in minima parte anche per i non americani – è allo stesso tempo un rito, un’istituzione e un momento decisivo nella creazione sia di cultura pop che di discorso politico. Con l’addio di Letterman, colui che ha contribuito maggiormente a definire i canoni del genere negli ultimi trent’anni, scoppierà una piccola rivoluzione nello slot 11.30pm-12.30am che probabilmente influirà anche sulle scelte degli altri network; sono in tanti a sperare in un gesto coraggioso da parte della CBS, che contribuirebbe a rivitalizzare un prodotto da qualche tempo un po’ troppo uguale a se stesso, e chissà che questa non possa essere la volta buona.

Il monologo di Louis C.K. al Saturday Night Live

Louis C.K. on gender equality

Sabato 29 marzo Louis C.K. era al Saturday Night Live, il programma di comicità dal vivo della NBC, nelle vesti di host: la puntata è stata una delle migliori di questa stagione (abbastanza fiacca) del SNL, grazie anche alla presenza di Louis C.K. in molti sketch e, soprattutto, grazie ai nove minuti di monologo iniziale del comico.
Da qualche anno a questa parte la comicità di Louis C.K. è il meglio che c’è in giro, in un’epoca orfana dei vari George Carlin e Bill Hicks, e il monologo di sabato scorso è sicuramente tra le cose migliori scritte da Louie di recente.
(ecco i 9 minuti integrali del monologo, in inglese; qui i ragazzi di The Comedy Bay hanno preparato i sottotitoli in italiano da applicare al video – fear not, spiegano come farlo)

 

Il prossimo 5 maggio torna in onda su FX “Louie”, la serie creata e interpretata da Louis C.K., tra le comedy più innovative e originali (e, manco a dirlo, divertenti) degli ultimi anni; proprio sabato scorso è stato rilasciato il primo video promozionale della quarta stagione.

Tre cose che ho amato (e tre che ho detestato) della terza stagione di Girls

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Ieri ho visto le ultime due puntate della terza stagione di Girls. L’ultimo episodio è andato in onda in America domenica sera su HBO, e pare che per la quarta stagione dovremo aspettare fino al 2015.
Sono un fan della serie creata/scritta/girata/prodotta/interpretata da Lena Dunham sin dagli esordi, cioè dal 2012. In questi tre anni scarsi Girls è stata al centro di un hype pazzesco; ha vinto molti (non moltissimi) premi; ha avuto molti (non moltissimi) spettatori; la stessa Lena Dunham è diventata negli USA un personaggio rispettato e relevant, almeno nel mondo dello spettacolo.

Una delle cose – per me che ho 27 anni – più strabilianti di LD è che a 24 aveva già scritto/diretto/intepretato (aridaje) Tiny Furniture, un bel film da molti etichettato frettolosamente come tardo mumblecore, e nel quale recitavano molti dei futuri attori di Girls. Da allora non ne ha più sbagliata una: oltre al successo della serie, tante uscite pubbliche su femminismo e diritti LGBT (per i quali è un’attivista convinta; ha dichiarato di non volersi sposare finché i matrimoni gay non saranno legali in tutti gli Usa), un endorsement memorabile per le presidenziali 2012, ovviamente in favore di Obama (nel video invita i giovani a votare, paragonando la prima volta che si vota alla prima volta che si fa sesso), fino a un libro in uscita il 7 ottobre 2014, dal titolo “Not that kind of girl”, per il quale avrebbe ricevuto un compenso di 3.7 milioni di dollari (ah no, una cosa l’ha cannata: l’episodio del Saturday Night Live da lei condotto non era esattamente memorabile e Lena era piuttosto fuori luogo negli sketch, anche se la parodia biblica di Girls era piuttosto divertente).

La terza stagione di Girls è stata esattamente come le altre: brillante, ironica, ben scritta e coinvolgente, soprattutto per un twenty-something come me. Ecco le tre cose che mi sono piaciute di più di questa season 3, assieme alle tre (ma ho fatto fatica a trovarle) che mi sono piaciute meno. (occhio: SPOILERS!)

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YES YES YES

  • Marnie. Marnie Michaels è la tipa perfettina, noiosetta, boriosa, bella di una bellezza super-convenzionale e priva di talenti particolari (se si esclude cantare cover in locali sfigati), che più o meno tutti abbiamo conosciuto. È il personaggio che in questa stagione ha avuto la storyline più interessante – dopo quella ovviamente di Hannah – anche se in realtà la sua vita non ha fatto registrare passi in avanti e le ha riservato solo delusioni, tutte peraltro meritate. È anche, a dir la verità, l’unico personaggio che avuto una vera storyline – oltre ovviamente a Hannah – e su questo ci tornerò. Anne Helen Petersen ha scritto sul L.A. Review of Book un bel saggio su Marnie e il “pretty girl privilege“, ovvero il trattamento riservato dalla società alle ragazze come Marnie, e il momento traumatico (per loro) in cui questo trattamento finisce.
  • Gli episodi speciali. Ok, non sono propriamente “speciali”, ma non sapevo come tradurre standalone episodes (idee migliori? lemme know). Sono gli episodi che rompono la routine della serie, ricorrendo ad ambientazioni particolari (casa al mare, paese natale di Hannah nel Michigan) o ad altri meccanismi narrativi inconsueti. Questi episodi sono sempre stati tra i migliori di Girls, e quelli di questa stagione  – “Beach house” e “Flo” (sarebbe bello vedere la madre di Hannah più spesso) – non sono stati da meno.
  • Quando Shoshanna perde la calma. Shoshanna Shapiro è sempre talmente ordinata e calma, che quando si incazza è irresistibile: come in “Beach House”, quando si ubriaca e sbatte in faccia alle altre quello che pensa di loro, o nel finale “Two plane rides” quando, nell’ordine: 1) scopre di non potersi diplomare e mette a soqquadro la stanza; 2) aggredisce a modo suo Marnie che le confessa, con pessimo tempismo, di essersi scopata il suo ex; 3) più tardi, implora Ray di tornare con lei in un modo disperato e tenerissimo (oh, quel please)

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NO NO NO

  • Jessa. Lo ammetto, ho una personale antipatia per Jessa, per il modo in cui vive la sua vita da privilegiata e per il suo fottuto accento posticcio. Ma non è questo il punto. Il personaggio di Jessa in questa stagione è stato totalmente inesistente, inutile e avulso dal resto dello show. Persino le scene del season finale, con la vecchia fotografa e il tentativo di eutanasia, sono goffe e poco interessanti. Peccato, una volta Jessa eguagliava Hannah in quanto a presenza e riusciva ad avere con lei una dinamica tutta speciale.
  • Tutto quello che avviene al di fuori del rapporto Hannah-Adam. È un dato di fatto: questa stagione è occupata per lo più dalla parabola (prima ascendente, poi in picchiata) della relazione tra Hannah e Adam. Il resto – a parte forse Marnie – è solo tratteggiato, poco approfondito e molti personaggi non hanno lo spazio che meriterebbero. Ho l’impressione che una volta lo show fosse più corale e riuscisse a muoversi in più direzioni contemporaneamente. Forse Matt Zoller Seitz non ha torto quando scrive su Vulture che c’è un problema in Girls, e cioè “an inability to balance the different parts of the show’s ensemble”.
  • Caroline, la sorella pazza di Adam, era uno spasso da vedere all’opera, peccato che sia scomparsa presto (anche se la sorpresina finale è stata wow) oppure da fan sono addolorato per il fatto che ora tutti sembrino destinati a separarsi inesorabilmente oppure è scandaloso che Hannah non sappia aprire le lettere e dovrebbe procurarsi un tagliacarte oppure non saprei, faccio fatica a trovare un terzo punto. La verità è che anche questa stagione è stata una figata.

Extras: due premi per essere arrivati fino in fondo al pezzo. Ecco un tumblr con illustrazioni molto belle, ispirate a scene di Girls (a cura di Nina Cosford); e un altro tumblr di sole foto di Shoshanna ai giochi olimpici invernali di Sochi 2014 (proprio così) – siamo tutti d’accordo che Shosh abbia la migliore faccia possibile, sì?

Benji

Sun Kil Moon - Benji

Come fai a parlare di un disco come Benji di Sun Kil Moon? Voglio dire, come fai a parlare di un disco così aperto e dolente senza finire a scrivere una lista di cliché patetici?

Jeva Lange, su The Awl, scrive che i testi di Benji formano una sorta di Grande Romanzo Americano in musica; e in effetti il gusto della narrazione, i temi della nostalgia e il ricordo, le ambientazioni midwestern, sono tutti elementi tipici di una certa narrativa americana.
Se è vero che tutta la carriera di Mark Kozelek – Red House Painters, Sun Kil Moon, altre produzioni – è pervasa da certi sentimenti (malinconia, tristezza ecc.) in musica, Benji li prende e li codifica in modo definitivo, con estrema schiettezza e anche con un certo distacco. In “I Watched The Film The Song Remains The Same” a un certo punto MK canta quella che è la sua poetica, in retrospettiva:

I’ll go to my grave with my melancholy
And my ghost will echo my sentiments for all eternity

l’unica foto che ho trovato in cui Kozelek stesse sorridendo

Benji è il disco più bello che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi mesi e probabilmente avrò voglia di ascoltarlo ancora a lungo.
Mark Kozelek sarà in Italia a inizio aprile per quattro concerti (4/4 Roma, 5/4 Ravenna, 6/4 Milano, 7/4 Padova), per fortuna.

As Perfect As We’ll Ever Be

Matt Pryor scrive belle canzoni ininterrottamente – ok, più o meno – dal 1995. Certo, possiamo discutere per ore dei dischi dei Get Up Kids post-STWHA e qualche disco dei New Amsterdams è in effetti un po’ floscio; rimane il fatto che il Nostro ha continuato a infilare pezzi giusti, sparsi qua e là per i suoi n dischi usciti per i suoi n progetti. Ad esempio (lo preferisco quando rimane sull’acustico):

Un paio di settimane è uscito Wrist slitter, il suo terzo disco solista – cioè, proprio a nome Matt Pryor. Qui si ascolta in streaming e c’è pure una bella intervista (alla fine cercate su youtube che cazzo di sport è il kickball). Quando dicevo che i pezzoni ce li ha ancora, parlavo di roba tipo questa: